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Questa foto mi è stata mandata da Delio Ambrosecchia e mostra un blu profondo sul versante sud est del Monte. Tante sarebbero le storie da raccontare o quelle da cui poter far partire una leggenda. Ne prenderò un pezzo da un libro di racconti che sto scrivendo, che tratta proprio del Monte Sacro per eccellenza.

“[…] Il racconto del paziente continuò con la descrizione delle fasi preparatorie della salita della montagna: “Quello che ci eravamo prefissati era poter indagare meglio su come fosse possibile una sacralizzazione simile ed investigare, con un team composto da vari esperti, quello che sembrava essere stato il luogo di strani rituali. La preparazione della salita del Monte fu tra le cose più difficili perché, pur nella piena razionalità, alcune leggende del luogo destavano non poche preoccupazioni. Una di queste, forse la più antica, parlava di un’entità, un qualcosa non assimilabile neppure ad un demone, che avesse sulla vetta un altare nel quale degenerati discendenti di popolazioni provenienti dal deserto del Rubʿ al-Khālī, il “deserto del Quarto Vuoto” e che erano giunte in queste zone durante la “Restauratio Imperii” di Giustiniano, nel VI secolo avanti Cristo, praticassero dei rituali tra strani urli e sparizioni di neonati in particolari periodi dell’anno che corrispondevano con Valpurga.

Era accertato come uno strano quartiere, alle pendici del paese, avesse ospitato alcuni di questi personaggi, che non legarono mai con la gente del posto e che furono sempre piuttosto restii a condividere il loro sapere. L’antica tribù dalla quale discendevano sembra chiamarsi “Banū ʿād”. Questi hanno lasciato come unica traccia il nome dell’abbandonato quartiere di cui resta, però, una storpiatura di origine francese: Buvulardi. Queste gruppo portò con sé dei riti che alcuni testi letti dal professor Kardon, provenienti da una biblioteca dell’Estremo Oriente, della quale non mi chiarì mai l’ubicazione, volevano essere collegati ad una divinità molto particolare. Mi raccontava spesso di come, già nelle teorie di Durkheim, ci fosse il collegamento tra il totem e il nome della tribù per cui tale oggetto fosse sacro. Spesso si trattava di animali, ma il professore aveva collegato il nome dei Banū ʿād ad una divinità talmente terrificante che nemmeno si cercava di descriverne le sembianza. Tale divinità doveva aveva il nome, dedotto da alcuni frammenti, di “Buūlād”. In realtà la stirpe dei Banū ʿād è conosciuta anche nel Corano, ma su una cosa solo il professor Kardon concordava con il testo sacro e cioè la provenienza: questa popolazione aveva abitato Iram at al-‘imad ovvero la famosa “Iram dalle mille colonne”.

Il trasferimento in questo luogo sperduto non fu casuale, come anche la scelta del monte per praticare queste strane ritualità. Solo in seguito potei capire come la loro presenza, uno strano sisma e la distruzione del loro quartiere fosse collegata, e di come la esagerata sacralizzazione di quella montagna, con il tentativo, su ogni punto, di porvi oggetti che la tradizione legava all’esorcizzazione di un luogo, avesse come compito primario quello di evitare a chiunque di salire sul monte. C’erano anche altre leggende legate alla montagna: alcuni paesani giuravano e spergiuravano che nelle notti senza luna, tre luci salissero verso la vetta, con un ritmo ipnotico, e di come il vento che scendesse dalle pendici, passando tra gli alberi che erano lassù, assumesse le sembianze di mille urla agghiaccianti. Sta di fatto che quel luogo attirava l’interesse sia mio, sia di un gruppo di studiosi che riuscii, nonostante le difficoltà, a raccogliere intorno al progetto di risalire il Monte e, una volta in cima, poter effettuare degli studi che andava dalla strana geologia pre-cambriana delle rocce che fuoriuscivano in alcuni punti visibili anche dal paese, alla botanica, con il prelievo di pollini di alcune pinacee che crescevano sulla vetta, e che avevano una strana composizione, a metà tra le crittogame di origine ordoviciana e di alcune più evolute fanerogame.Con noi, nella salita, ci sarebbe stato anche un archeologo dell’università di Tubinga, amico del professor Kardon il quale, invece, sarebbe stato al campobase allestito alle pendici del Monte, insieme ad un’assistente chiacchierona ma molto attiva, la quale avrebbe aiutato il professore a tenere appunti su ciò che il bollettino giornaliero avrebbe trasmesso dalla vetta. La partenza fu organizzata per l’autunno, prima della ‘ritualità del fuoco’, e avrebbe dovuto durare non più di 3 settimane. Maledetto fu quel giorno.”

A questo punto il racconto del paziente ha un’improvviso salto temporale, che lo porta a rivivere scene della rocambolesca discesa e il ripetere incessante di alcune parole, come ad esempio la descrizione della vegetazione “avevano gli occhi, tutto aveva degli occhi” e la incredibile rappresentazione di un fungo: “è invisibile ad occhio nudo, ma controlla le menti”. Dalle registrazioni degli interrogatori svolti dalla polizia, è possibile ricavare in parte ciò che successe durante la salita e la permanenza sulla vetta. Mi sforzerò, quindi, di seguito, di descrivere dettagliatamente ciò che portò alla scomparsa di cinque persone e all’uscita totale di senno dell’unico che fece ritorno da quella maledetta spedizione. […]”

Da “Mons Locus Calvariae”, racconto in scrittura.

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