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Quello di Salvini non è stato un gesto improvvisato. A confermarlo anche la signora che ha indicato il campanello da suonare e tutta questa vicenda, che vede coinvolto un minore, una cittadina e l’ex ministro dell’Interno, ora senatore, fa emergere almeno tre cose di questa Italia in piena crisi morale.

1. L’istigazione all’odio
Come ben sottolineato dalla testata online “Submarine”, questo gesto di Salvini non può essere letto solo nell’ottica della “scenetta salviniana”. No. Questo è un atto di istigazione all’odio promosso dalle istituzioni. Salvini, infatti, è un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni di senatore e citofonare ad un minore comporta un serie di ipotesi di reato che vanno dalla violazione della privacy, avendo fatto più volte il nome, alla diffamazione a mezza stampa. Ma a preoccupare è l’atteggiamento, la prova di forza di un uomo, accompagnato dalle forze dell’ordine, che si sostituisce ad esse. Viene da pensare: e se fosse stato davvero uno spacciatore e la citofonata di Salvini lo avesse messo in guardia e gli avesse permesso di inquinare tutte le prove? L’ex ministro avrebbe messo i bastoni tra le ruote a chi eventualmente stesse conducendo un’indagine. Ma a quanto pare non è così. Tutto sembra voler sottolineare come sia stata solo l’ennesima prova della dimensione dell’odio che piace ai leghisti, odio che deve passare come un gesto ironico, avventato, quasi stupido. Perché è meglio essere valutati stupidi, che cattivi, così da creare empatia nei confronti del proprio elettorato: è più facile votare una persona che fa qualche “marachella” invece che un istigatore all’odio. Questa è l’istituzionalizzazione della violenza politica, l’assuefazione all’aggressione mediatica, la fine definitiva del confine tra quello che si può e quello che non si deve fare per vincere delle elezioni.

2. Il popolo
Altro dato importante è il clima in cui vive la popolazione di molte zone. Non ci sono film diversi da quelli del farwest per poter descrivere l’atteggiamento: una donna si sente in diritto, nel nome del “sentito dire”, di indicare il nome e il luogo in cui abita un presunto spacciatore, senza alcuna paura delle conseguenze. Siamo alla deriva del rapporto cittadini-istituzioni: un senatore si sostituisce alla magistratura, dà in pasto alla gogna mediatica un cittadino solo perché tunisino, facendo più volte il nome in diretta, e tutto questo porta all’apprezzamento dei suoi sostenitori. Non è desiderio di giustizia, è carneficina sociale che si tramuta in volontà di pulizia etnica. Di questo si tratta. Ma il piano si sposta su una riflessione ancora più profonda nel descrivere quanto stereotipante sia la realtà che viviamo. Persino chi vuole difendere il ragazzo ed attaccare il segretario leghista, può farlo solo con altro razzismo: “vai a bussare a Palermo, a Napoli o a Vibo Valentia!” Il messaggio è chiaro, come fa notare anche l’antropologo Giovanni Gugg sui social: il Sud, nell’immaginario collettivo, corrisponde ancora a quella terra di fatto governata a tutto campo dalle mafie. È l’insulto in difesa di un insultato, perché siamo costretti, per difenderci o difendere, nel coinvolgere qualcuno più debole, più denigrabile, con meno mezzi di difesa. E così, via a tutta la dignità di chi vive in quartieri in difficoltà: l’attacco al nemico giustifica ogni mezzo.

3. Crisi della politica
C’è, in questo avvenimento, una crisi politica e una crisi della politica. La prima è quella che sta rischiando di esplodere tra il nostro Paese e la Tunisia, dove il vicepresidente del Parlamento Osama Sghaier ha dichiarato, in un’intervista a Radio Capital, che quello di Salvini è “un atteggiamento razzista e vergognoso che mina i rapporti tra Italia e Tunisia”. Il ‘capitano’, però, si difende parlando di “lotta alla droga”, che dovrebbe coinvolgere tutti. Ma qui, di droga, non c’è traccia, e se pur ce ne fosse questo non è un miglioramento della situazione, ma è il voler creare un clima da ‘resa dei conti‘, come poi c’è stata sulla macchina della signora inquisitrice. Questa è la crisi della politica. Un’arte che non lo è più. Non si governa, si urla. Non bisogna essere statisti, ma influencer sui social. Una campagna elettorale perenne che ha tramutato un’intero Paese in una zona di “guerra mediatica”, bombardati da fake-news, assuefatti ai comportamenti più carnefici in senso morale, che possono arrivare a farci giustificare qualsiasi atto di violenza come semplice gesto di ribellione sociale. Il limite è stato superato e nemmeno chi doveva difenderci e difendersi da questo sentimento, ha fatto nulla. Basti pensare al sindaco di Bologna, il quale, per ogni problema, ha un unica soluzione: sgombrare. Che si tratti di un centro sociale autogestito che ha alle spalle tanti anni di attività per il popolo, o che si tratti di famiglie in difficoltà sociale, quello che si deve fare è inseguire i metodi della destra, perché lo vuole l’elettorato. Peccato che questo elettorato, nel 2008, all’inizio della crisi economica, avrebbe voluto essere difeso da quella sinistra che un tempo era partito delle classi più deboli, ma che ha venduto la sua anima al miglior offerente, che si chiami spread, legge di bilancio, Ue o mercato, poco importa. Quella nicchia è stata riempita dalla più pericolosa delle eversioni politiche, quella del “difendi il tuo simile, distruggi il resto”, ed ora quel seme di odio è germogliato in tutte le sue forme. In Italia, al momento, l’unico attentato di matrice terroristica lo ha fatto un italiano, di estrema destra. Questo non va dimenticato. Come non va dimenticato che girarsi dall’altra parte e far finta di non vedere i problemi crea linfa vitale a questo sistema di incitamento alla guerra tra poveri: dire che a Pilastri sia tutto rosa è fiori è mentire, come dirlo per il Gad a Ferrara, per Scampia a Napoli o per lo Zen a Palermo. Volerlo risolvere, invece, è altro conto. Questa, però, non è più la realtà delle soluzioni: siamo nel mondo della politica 4.0, dove l’importante è urlare più dell’avversario, creare nemici, immettere ogni giorno una paura diversa, giustificare l’odio e ghettizzare il diverso. Il fascismo del nuovo millennio.

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